Panarea (Isole Eolie)Se in Inghilterra è Aprile il più crudele dei mesi, in Sicilia Settembre è sicuramente il più luminoso e dolce. L’estate ha placato i suoi furori. Non più temperature africane, ringhiere barocche sulle quali si può rischiare di lasciare le mani a poggiarle incautamente, ma un tepore sereno e generoso e giornate ancora terse e magnifiche. Partiamo dal porto di Messina alle sette e mezza diretti all’isola di Panarea con una escursione della locale sezione dell’Anisn. L’aliscafo si mette in moto puntuale rimescolando piacevolmente chiacchiere tra colleghe ritrovatesi dopo anni all’odore di nafta, di salsedine e di giorni di vacanza lontani, appena disseppelliti dai ricordi. A me veramente torna anche un po’ su il caffè insieme al cornetto presi all’ultimo momento, ma è un particolare. Dall’azzurro brillante della prateria marina, splendide, emergono le Isole Eolie. Splendide e terribili, isole solo apparentemente quiete e tranquille, destinazioni di vacanze pigre e un po’ snob. Vulcano, Lipari, Salina, Panarea e poi Stromboli, Filicudi e Alicudi, tutti vulcani che emergono dall’acqua come monumenti immensi di una solitudine millenaria. Sono isole scure alte, serissime. Hanno pareti minacciose, travagliate da eventi geologici drammatici e antichissimi. E sotto l’abisso profondo del Tirreno nascondono edifici lavici impressionanti. L’altezza di Stromboli è 920 metri ma partendo dal basamento sul fondale marino è 3000. Panarea è alta solo 421 metri, ma è solo la parte emersa di un edificio lavico sprofondato vasto come l’Etna, la Montagna, come viene chiamato in Sicilia il vulcano più alto d’Europa, paradigma di una natura potente, inaccessibile e misteriosa, ancora più forte dell’uomo. Dal piano abissale del Tirreno si sollevano senza emergere altri vulcani nascosti: Alcione, Palinuro, Sisifo e il più grande di tutti, il Marsili. Fratelli potenti e segreti, figli della stessa bolla magmatica. Le Eolie sono qui come testimoni grandiosi e severi che il tempo, quello vero, non è l’effimero soffio delle vicende dell’uomo, ma il loro: il tempo geologico, quello che inabissa e solleva continenti, il tempo delle rocce e del fuoco, il tempo minerale delle lave e dei sedimenti, lentezza suprema, metamorfosi inesorabile e immane della faccia stessa del mondo. La sosta a Stromboli è breve. La rotta dell’aliscafo passa davanti al minuscolo paese di Ginostra ed evita la “Sciara di fuoco”: immenso scivolo di lave e materiale piroclastico. Da un fianco della Sciara il 30 dicembre 2003 un crollo colossale provocò una onda di maremoto che investì le bianche case di Stromboli. Una volta si poteva salire fino in cima ed assistere alle ricorrenti paurose esplosioni. Ora è vietato scalare la cima di questo che è uno dei cinque o sei vulcani perennemente attivi nel mondo. Finalmente sbarchiamo a Panarea. Abitata sin dall’età del bronzo, per i Greci Euonymos, ebbe fino a 1000 abitanti. Abbandonata a causa delle incursioni, nel 16° sec. fu il rifugio del pirata saraceno Drauth. Adesso conta 200 residenti stabili. Prendiamo alloggio al “Lisca Bianca”, e ci prepariamo alla salita a Punta del Corvo. Siamo sedici insegnanti compresi i ragazzi appena abilitati dalla Sissis, la guida della forestale, il Prof. Rasà, vulcanologo dell’Università di Messina e alcune colleghe in pensione allegre come matricole. Però la salita è dura e il sole di Panarea a mezzogiorno è ancora forte e vendicativo. Due ore in salita dal mare a 400 metri non è moltissimo se non per i trenta gradi e la quasi completa assenza di ombra. Qualcuno cede: alcune colleghe e anche il nostro vulcanologo, purtroppo, ci salutano, tornano indietro. Teniamo duro. Lungo il sentiero arbusti e fichi d’india maturi. Poca ombra, molte spine. Ma, alla fine, si arriva in cima e lo spettacolo è grandioso. A sud ovest Lipari ci mostra le sue ferite: le cave di pomice sul versante nord est. Ai suoi fianchi Vulcano e Salina, a nord ovest Basiluzzo grande scoglio disabitato e poi Stromboli altissimo e fumante. Sembra di volare, si vorrebbe volare come i gabbiani e il falco della regina di cui riusciamo ad osservare due esemplari. Le parole non servono. Assorbiamo questa bellezza con gli occhi, con i polmoni e…riprendiamo fiato, per fortuna. Mangiamo stretti ad alcune rocce per sfuggire un poco al sole di giustizia. La guida, Giuseppe, è di Lipari e ci parla della sua scelta di fare questo mestiere e della vita delle isole. Sotto di noi, trecento metri più in giù la costa più alta e aspra di Panarea e poi il mare. Ci aspetta il sentiero di ritorno, due ore di discesa lente e caute tra rocce aspre, endemismi impronunciabili, chicche per i botanici, come la Silene hicesiae o la Wahlembergia nutabunda, ma soprattutto panorami di una bellezza sferzante. Scendiamo e attraversiamo Panarea quasi in veste dimessa adesso che è finita la stagione dei visitatori miliardari. La sera a tavola non c’è neanche tanta stanchezza. La strana malìa di quest’isola ci ha veramente staccato, liberato dalle scorie della nostra esistenza normale. Tutto è quieto, il mare è profondo e oscuro, non sembra minacciare ma al contrario proteggere. Finiamo in una festa per le nozze d’oro dei gestori dell’albergo. Sono gentilissimi. Ci offrono la torta e da bere. Un’orchestra eoliana miscela salsa, merengue, e vecchie canzoni popolari. Balliamo tutto, persino un lentissimo, infinito “Comandante Che Guevara”. Nel cielo luminosissime le stelle, è quasi novilunio. Una collega fa gli auguri ai coniugi festeggiati. Riesce perfino a farsi dare la bomboniera. Il giorno dopo giro in barca dell’isola. Dapprima visitiamo Basiluzzo grandioso scoglio disabitato poi gli altri: Spinazzola, Dattilo, Lisca bianca, Lisca nera tutti strutture emerse di uno stesso edificio vulcanico sicuramente ancora in grado di esprimere attività significativa e qualche sorpresa. Tra Dattilo, che presenta caverne di zolfo e allume cristallizzato, e Lisca bianca il mare ribolle. E’ un punto di degassamento comparso nel 2002. E’ questo il centro sommerso del vulcano. Ci tuffiamo e scendiamo in apnea. Il fondo è a sette, otto metri e dalle fenditure fuoriescono getti di gas potenti e continui che creano un bosco di colonne d’aria nell’acqua. Sopra l’odore di zolfo è fastidioso ma sotto nuotare fra le bolle è un piacere da non perdersi. Altro che Jacuzzi! Ci fanno compagnia le monachelle e anche qualche medusa che scivola via danzando, perfida e altezzosa. Torniamo a Panarea fermandoci a Cala Junco anfiteatro roccioso conosciuto dalla preistoria. Sul promontorio di Capo Milazzese i resti di un villaggio neolitico testimone di una antichissima presenza umana (XIV a.c.). Ci rimangono da vedere le coste ovest e nord di Panarea, quelle rivolte verso il Tirreno. Le più alte frastagliate e quasi sempre inaccessibili. Le più belle nella loro selvaggia durezza. Il Prof. Rasà, recuperato dopo il riposo notturno, decifra per noi la scrittura materiale del mondo: ogni ruga, ogni segno tracciato su queste pareti vertiginose, navate di cattedrali primitive sfondate dal mare. Qui un camino magmatico, lì una sovrapposizione di colate diverse. Picchi, guglie, duomi, falesie come sculture informali, modernissime e primigenie si ergono a testimoniare il tempo, la metamorfosi e strutturano lo spazio e la forma intorno a noi. La falesia ci ricopre con la sua ombra enorme. Il marinaio mette al minimo. Dal dondolìo della barca osserviamo e ascoltiamo ammutoliti. Tenendosi a giusta distanza, le gabbianelle ci guardano con ironica sufficienza, come aristocratiche custodi di questo arcano museo d’acqua salata e di pietra immensa. L’ultimo bagno lo facciamo nuotando a lungo in un mare smeraldo privo di meduse. La nostra escursione sta finendo. A tavola in un terrazza di fronte al porticciolo, il tempo sembra fermarsi. La magia di settembre tenta di trattenerci. La padrona ci parla dei pomodori appesi a grappoli sulle nostre teste. “Maturano al sole a poco poco, dice, a Marzo sono ancora buoni”. Le colleghe in pensione parlano di figli e nipotini. Le ragazze della Sissis parlano delle graduatorie e del precariato. Alcune di loro hanno fatto domanda al Nord, dovranno andare via. Ma sembrano entusiaste, sorridono, sono giovani. Mimma Lucchesi, la nostra presidente, ci racconta della sua gavetta di anni, qui nelle isole, quando d’inverno le burrasche le impedivano di tornare a casa. E anch’io sorrido pensando ai miei primi anni da insegnante, alla nebbia e alla neve di Bergamo. All’ormeggio, collegata al molo da un lunghissimo tubo ombelicale, una vecchia nave cisterna porta l’acqua a Panarea. Mimmo Genovese |
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